Da qualche mese, diverse assistenti familiari ci sottopongono il loro contratto di lavoro “in convivenza” a 35, 40, 44 ore settimanali anziché 54, chiedendoci se sia regolare e sottolineando come il loro stipendio sia comunque uguale a quello delle colleghe che “sulla carta” fanno 54 ore.
La discrezionalità sull’orario delle assisitenti familiari nasce proprio dalla formulazione dell’art. 15 del contratto collettivo per il lavoro domestico, che dice che l’orario di lavoro è “concordato tra le parti” con un massimo di 54 ore settimanali.
Il ragionamento che sottende la scelta di regolarizzare l’assistente familiare per un numero di ore inferiore alle 54 ore, si basa sul presupposto che la badante non lavori 10 ore al giorno (in qualche caso è anche vero), non considerando però che anche l’attività di presenza e sorveglianza sono parte del lavoro di badante. E poi c’è il “simpatico” quanto interessante risvolto di risparmiare qualche soldino di contributi…
Alla base, quindi, c’è un errore di fondo: il ragionamento non farebbe una grinza se l’orario di lavoro dell’assistente familiare fosse “ben definito” e se essa avesse la possibilità di utilizzare le ore nelle quali non lavora, per uscire di casa e farsi “gli affari suoi”… Ma così non accade: lo stratagemma si rivela quindi un furbesco metodo per ridurre il peso dei contributi, spesso dmenticandosi di sottolineare che, a fronte di questo “risparmio”, chi ci rimette è la badante, che potrà godere di un minore accantonamento pensionistico e, soprattutto, di minori tutele in caso di maternità o disoccupazione.
Purtroppo, ancora una volta, un settore così importante e delicato come quello dell’assistenza alla persona, viene svilito per l’avidità degli addetti ai lavori e per la disattenzione (o forse disinteresse?!) dello Stato.